sabato 15 agosto 2009

I BAMBINI E L'AUTONOMIA

Tratto da http://atpiombinese.myblog.it


Titolo originale: A PROPOSITO DI AUTONOMIA


AUTORE: Roberto Catalucci


I genitori non devono pensare di vivere una seconda vita attraverso i loro figli. Pochi bambini diventano grandi campioni, ma tutti devono essere grandi uomini …


Vi è la ferma convinzione che l’autonomia risulti essere un aspetto fondamentale ed imprescindibile per la costruzione della sfera intellettiva del bambino. Questa riflessione, nasce dall’esigenza assolutamente rilevabile, nell’ambito del nostro vissuto sportivo quotidiano, di fornire una chiave di lettura alternativa al modo di procedere di molti genitori ed insegnanti di tennis, che intravedono nei loro ragazzi degli strumenti indispensabili al fine di placare le loro recondite frustrazioni e realizzare le loro ambizioni represse, tenendo comportamenti alquanto discutibili e riversando sui malcapitati un fardello di responsabilità talmente oneroso da sopportare, che il più delle volte provoca un senso di disaffezione al nostro meraviglioso sport se non addirittura l’abbandono precoce dello stesso. Non dobbiamo dimenticare che per un bambino una partita, non è mai “soltanto un gioco” un puro divertimento, od un modo per distrarsi da preoccupazioni più gravi. Per un bambino giocare una partita può essere, ed il più delle volte è, un’impresa molto seria dal cui esito dipende la sua autostima ed il suo senso di competenza. In altre parole, il gioco è la sua realtà; questo estende il significato di una partita ben oltre i limiti che può avere per un adulto. Perdere la partita non fa dunque parte del gioco, come è, o dovrebbe essere, per l’adulto; è un’esperienza che mette in dubbio, ed a volte mina, il senso di competenza personale del bambino. Ben lungi dall’essere parte del gioco, la sconfitta non è solo un affronto, è qualcosa che, mettendo in discussione la sua dignità e dunque la sua integrità personale, mette in difficoltà i suoi stessi equilibri; e questo va impedito a qualunque costo. Poiché gli fa temere di perdere davanti agli adulti la sua dignità, una serie di sconfitte può davvero disgregare tutta la padronanza di se, al punto che improvvisamente il piccolo giocatore non riesce più a distinguere tra la realtà del gioco e la realtà della sua vita. Ecco perché lo stesso bambino, che dimostra di conoscere le regole del gioco e bada a che anche l’avversario le rispetti, finchè ha la speranza di vincere, ad un certo punto, quando pensa di stare perdendo, si mette a bella posta a trasgredirle. E’ un comportamento che sovente lascia sconcertati i genitori ed i maestri: se sa giocare così bene quando vince, come mai gioca scorrettamente quando perde? Per l’adulto si tratta dell’identica situazione, e comunque sempre di un gioco; per il bambino, di due realtà molto diverse. Quando vince, si esalta oltre ogni ragionevolezza, considerato che si tratta “solo di un gioco”. Quando perde, si sente umiliato e reagisce di conseguenza: la sua maturità si incrina, esattamente come succede a molti adulti quando hanno la sensazione di essere umiliati. In questo scenario che ruolo devono assumere i genitori ed i maestri in ascolto empatico dei loro ragazzi? Dal loro atteggiamento deve scaturire amore e fiducia nei loro confronti, devono far capire loro che non si è grandi quando non si cade mai, ma quando si cade e troviamo in noi la forza di rialzarci. Devono far capir loro che la vita sportiva e non, è costellata di problemi, proporzionati alle capacità di ognuno e che il problema, ed il superamento dello stesso li renderà più felici e sicuri di se. I genitori ed i maestri non si devono sostituire ai loro ragazzi nella risoluzione dei problemi, ma devono far si con la loro presenza di creare le condizioni cognitive affinché il ragazzo stimoli le proprie capacità di autorisoluzione del problema, diventi un leader di se stesso e non un follower. Se diventiamo assolutamente indispensabili a qualcuno, vuol dire che ci stiamo allontanando da ciò che può essere definito un sano aiuto. Aiutare vuol dire sostenere, non sostituire. Quando il bambino affronta difficoltà necessarie alla sua crescita, non dobbiamo intrometterci cercando di alleviare la pena caricandoci eroicamente dei suoi pesi. Non dobbiamo giocare a fare Dio nella vita degli allievi che aiutiamo: non saremo mai all’altezza del ruolo. Troppo spesso decidiamo che questo o quello non deve accadere e di conseguenza facciamo di tutto per risolvere i problemi altrui con le nostre forze: l’effetto sui ragazzi di tale atteggiamento è l’indebolimento e la sempre maggiore dipendenza da noi. Vi è ferma convinzione nell’affermare che questo tipo di aiuto è egoistico e tende a farci sentire importanti per quelle persone che guardano a noi, confusi, davanti alle difficoltà del nostro sport. Quando aiutiamo in questo modo, per chi lo facciamo? Le lezioni di vita più importanti si imparano nella sofferenza. Chi aiuta “sa” dire no! Sa tirarsi indietro quando l’altro deve provare a sbagliare. Sa poi essere pronto ad aiutarlo a rialzarsi ed infondergli fiducia per buttarsi nuovamente nell’esperienza. Chi aiuta guarda al potenziale dell’altro e lo spinge al di la dei suoi limiti, anche se questo diventa scomodo ed irritante. Chi aiuta sa rinunciare all’approvazione a favore della crescita dell’altro. Chi aiuta deve credere che l’altro ce la può fare e deve lottare perché ce la faccia da solo!

Nessun commento: